Fratello e sorella giungono alla tomba del padre, da tempo scomparso, e vengono assaliti da un uomo taciturno e dall’aspetto mostruoso. Nella colluttazione, il fratello muore; mentre la sorella, dopo una fuga disperata, si rifugia in una casa apparentemente disabitata. In realtà, al suo interno si nascondono un uomo di colore una coppia giovanissima e un uomo con moglie e figlia – malata – al seguito. Le tensioni nel gruppo s’accrescono, mentre la situazione tutt’intorno si fa sempre più drammatica. Chi sono questi misteriosi assassini divoratori di cadaveri che circondano l’abitazione in numero crescente? Una televisione, trovata in soffitta, fornisce loro la risposta: i morti stanno tornando in vita e uccidono per nutrirsi chiunque si trovi a portata di mano. Dopo che un tentativo di fuga va letteralmente in fumo con l’esplosione incidentale di un camioncino – e della conseguente morte dei due fidanzatini – la situazione precipita tra il capofamiglia e il giovane di colore; e, mentre, i morti invadono la casa-rifugio, la figlioletta malata, oramai trasformatasi in una morta vivente, aggredisce i suoi genitori. Rimasto unico sopravvissuto del gruppo, l’uomo di colore si barrica nella cantina, finché, il mattino successivo, un epilogo caustico e grottesco lo sorprende.
Girato durante i weekend e con un budget prossimo allo zero, il film di Romero è uno spartiacque assoluto del genere “horror”. In primis stravolge la figura del morto vivente (fino ad allora relegata allo zombi haitiano o a vendicatori redivivi – sul tenore di Death Curse of Tartu / Tartu, lo stregone maledetto, 1966 di William Grefe), inventando sostanzialmente una nuova mitologia, che nel tempo si rivelerà dominante – e non solo nell’ambito filmico del fantastico. In secondo luogo esibisce una sconsiderata rivoluzione. È sovversivo, infatti, tanto nella scelta dell’eroe di colore (e, a tal proposito, basti leggere l’eccellente racconto del texano Joe Landsdale The Night They Missed the Horror Show, nel quale abbondano le considerazioni sociali su questa scelta nell’ambito “redneck” del paese – anche se è facilmente intuibile che la stessa reazione si possa affrancare alla cultura perbenista e ipocritamente bacchettona che domina per intero la popolazione statunitense); quanto è furioso nella critica a una società che dietro la sua facciata edificante e orgogliosa cela pregiudizi, vizi e un egoismo di rara portata (il nucleo famigliare qui rappresentato è un’esemplificativa dissezione, con il padre vigliacco ma convinto della sua forza, la moglie supina, capace solo di frecciate sarcastiche ma immobile nei fatti, e la bambina che letteralmente finisce per divorarli, come se il principio fondamentale della società USA si basasse sul cannibalismo del più giovane – leggi, del più forte – anche a discapito dell’amore famigliare).
È altrettanto violentemente antisociale nel ritrarre l’inadeguatezza dello stato nei confronti di questa “nuova” piaga, con gli scienziati impotenti che si rimbalzano la palla gli uni con gli altri, i militari che si nascondono dietro il silenzio per la sicurezza nazionale, e, dulcis in fundo, nella cieca violenza delle milizie private che, su ordini di spietati sceriffi, ripuliscono le campagne da morti viventi come di ogni cosa si muova di fronte ai loro mirini, dando spesso la sensazione che più che una sorta di guerra, si stia assistendo ai ludici momenti di un sanguinario pic-nic di massa, offrendo contemporaneamente una sottile ma tagliente accusa al riadattamento del conflitto in Viet-Nam da parte delle forze politiche e dei media.
Di certo, nulla viene risparmiato dal regista di Pittsburgh (che su questa pellicola ha costruito una carriera di grande spessore, comprendente oltre ai vari seguiti di questa “franchise”, anche altri ottimi titoli come Martin / Wampyr, 1977, Creepshow, 1983 e The Crazies / La città verrà distrutta all’alba, 1973), nemmeno il suo protagonista, il quale esibisce la tracotanza caratteristica dei gruppi etnici ghettizzati che, per una qualunque causa, si ritrovino a parti rovesciate, ovvero con il coltello dalla parte del manico; costruendo un’opera sostanzialmente priva di veri personaggi positivi – anche la protagonista femminile è di una fragilità sconvolgente e, resa folle dal terrore, finisce sostanzialmente per gettarsi di sua sponte tra le avide braccia dei redivivi – dalla lettura complessa per la spessa polivalenza che la caratterizza. Tecnicamente, inoltre, Romero si affida a un bianco e nero contrastato che né rafforza la carica eversiva, come se – sfruttando caratteristiche suggestioni, già tipiche dell’espressionismo cinematografico – intendesse piombare letteralmente lo spettatore nel suo incubo.
Il cast, composto praticamente da attori non professionisti, si rivela quasi sempre perfetto nel suo mettere in scena personaggi che sono, più che altro, delle vere e proprie icone, simboleggianti ognuna un “tipo” della società americana, pur senza dimenticarsi di essere gli interpreti – superficialmente – di una pellicola dell’orrore. È quest’ultima consapevolezza, che si esemplifica nell’efficacia con cui certe immagini s’insinuano nella memoria dello spettatore, a far trascendere questo titolo nel “gotha” degli immortali capolavori del cinema “horror” (e non), con il suo carico di orrori primari – i morti viventi, i banchetti cannibali, le morti violente – che perfettamente si coniugano a quelli secondari – lo sfacelo sociale che mina questo volto più recente della società umana – dando vita a uno dei peggiori incubi a cui ci si possa trovare esposti.
Va anche detto che – in parte per recuperare i soldi che, malgrado il grande successo mondiale, i realizzatori non hanno mai visto – in occasione del trentennale, John Russo (in seguito scrittore e regista di non eccelso profilo nell’ambito del “horror”: Midnight, 1982) ha riproposto la pellicola in una versione ripulita – atto sicuramente meritorio – con l’aggiunta di un quarto d’ora di scene che ben poco hanno a che vedere con lo spessore dell’originale romeriano – una banale spiegazione dell’origine del primo zombi, quanto mai inutile, per non dire di evidente nocumento al messaggio metaforico della versione primigenia; e l’inserimento di un epilogo con un prete (per altro mal interpretato dal musicista Scott Vladimir Licina) del tutto fuori registro – finendo, invero per appesantire la visione di quello che in origine rimane un autentico capolavoro.