Quando si decide di intitolare il proprio disco con un motto legato al Nazismo bisognerebbe avere la consapevolezza di immaginarsi con un enorme bersaglio montato dietro alla schiena, un po’ come quelli che si vedono nei cartoni animati della Warner Bros, ed essere pronti all’idea che il disco potrebbe per molti passare in secondo piano. Così in Italia, come nel Nord Europa, e non fa scalpore venire a sapere che per alcune case di distribuzione il disco viene considerato off limits.
A volte basta un nudo in copertina, una mistificazione religiosa, o un simbolismo da serie B per ridurre il lavoro di un artista a uno sterile e lagnoso contenzioso etico-sociale, figuriamoci un disco intitolato “Jadem Das Seine“, che ha tra le 12 track: “Kebab Trauma”, “Adolf Hitler Platz” e una cover di Burzum come traccia fantasma (Descrepitude).
Basterebbe non soffermarsi sulle apparenze, basterebbe approfondire, o anche solo leggere lo statement all’interno dell’album per capire che non è il manifesto di un giovane artista che vuol fare propaganda nazista, ma di un album che tratta argomenti come quello della guerra e dell’olocausto nella consapevolezza che proprio per i temi trattati verrà catalogato come sbagliato, cercando così di sensibilizzare gli ascoltatori, perchè il vero dramma è l’intorpedimento mentale delle persone incapaci di astenersi dal volere e dai dettami del sistema.
Christian Ryder questo lo sapeva, e proprio per questo sapeva che il compito più importante sarebbe stato quello di creare un disco musicalmente inattaccabile.
Sarebbe stato fin troppo semplice per la critica demolire un disco mediocre con l’aggravante di essere irriverente nei confronti dei morti e delle atrocità, ma se il disco fosse stata una rivelazione il rumore mediatico avrebbe solo giovato alla sua divulgazione, e così è stato.
Ovviamente parliamo di panorami non italiani, ma del Nord Europa, dove in pochi giorni il disco è andato sold out. L’Italia fin troppo succube delle mode mainstream, e da qualche anno a questa parte anche delle mode falsamente alternative (la falsa etichetta indie), non ama tendere l’orecchio a queste realtà che dovrebbero invece far nascere un pò di quel patriottismo made in Italy che nella musica manca da tanto.
I Tourdeforce vengono da influenze elettroniche anni ’80, e seguono quel ritorno alle sonorità semplici e pragmatiche che stanno facendo cambiare il mood musicale nei club e nelle serate alternative nel nostro vecchio stivale. Si sta passando da un post-punk revival a una new wave da pista e nel disco di Ryder paiono tutte hit da ballare.
La drum machine acida e semplice non ha bisogno di cavalcare veloci bpm per trasportare e coinvolgere, il merito è dei looper e dei synth che ricordano molto sonorità vicine a Vnv Nation, The Human League, Portion Control, Robert Miles (per volgerci al panorama italiano), anche se notiamo una vena più cupa e introspettiva rispetto al precedente lavoro “Colours in Life”.
I pezzi sono semplici nelle loro stesure, quasi sempre caratterizzati da tambureggianti tastiere dai suoni grossi e saturi notoriamente molto più industrial. Non mi stupisce infatti leggere in una recente intervista che “Pretty hate machine” dei NIN fu di fondamentale ispirazione per la carriera musicale dei Tourdeforce, perchè qui si sente tutta!
La voce sempre filtrata e effettata, pur non spaziando in esercizi canori complessi, dà la giusta dimensione ai brani, e sono anche il giusto registro e la giusta interpretazione a far sì che diventi protagonista. Facile in un contesto del genere perdersi nei paragoni tra band storiche e nuove leve, ma i Tourdeforce convincono e trasportano come in “Adolf Hitler Plantz” (secondo video estratto) arricchito dalla voce di Porta Vittoria con un ritornello orecchiabile dai toni romantici senza cadere troppo nel già sentito. Bella anche “History Is Written By The Winners” che pare uscita da un remix di Les Fleurs Du Mal di Sopor Aeternus con forti tinte scure e una melodia retrò contaminata da un piglio moderno che fa ondeggiare. “The Time Music Of Quasars” rimane a mio avviso il pezzo più originale del disco, un misto tra industrial (Rammstein) e darkwave (Depeche Mode), con il piglio di una ballad allungata che chiude in maniera esemplare un disco ricco di sfumature che non avrebbe senso snocciolare qui. Mi rammarica solo notare la poca presenza di questo progetto in versione live, motivata anche da una scelta personale di Christian Ryder, ma sono sicuro che i pezzi di questo “Jedem Das Seine” saranno sicuramente ascoltati e riascoltati in tutte le piste italiane.
Tourdeforce – Jedem das seine
