Nel Novembre 2011, dopo sei anni di lontananza dal mondo del cinema, David Lynch tira fuori dal suo cappello a cilindro “Crazy Clown Time”, prima creatura discografica a portare esclusivamente il suo nome. Inaspettatamente, dati gli intenti astrusi e surreali che si palesano, l’album riceve critiche positive e viene accolto dal pubblico con un calore non indifferente.
Due anni più tardi Lynch resta lontano dalla macchina da presa come prima, più di prima. Il cilindro di cui sopra, intanto, sputa fuori “The Big Dream”.
Cosa rappresenta un disco di David Lynch? Come si può definire un artista che è sempre stato, per antonomasia, indefinibile? Come ci si può illudere di discorrere circa qualcosa che vive sulla sponda opposta alla Comunicazione?
Semplice: considerando un album del cineasta statunitense alla stregua di un suo film.
Dunque si deve parlarne e non parlarne, non soffermandosi mai sui significati quanto rivolgere il proprio sguardo all’indefinito, spogliandosi della presunzione del “capire”. Lasciarsi guidare dalle immagini (in questo caso solo evocate) e perdersi, senza curarsi delle psicologie e dei discorsi sull’essere.
Provate ad ascoltare “Wishin’ Well” senza immaginare il volto di Laura Dern spaventosamente deformato dall’occhio di pesce della cinepresa, cercate di immergervi nelle spire di “The Line It Curves” senza ricordare le strade e le atmosfere di “Lost Highway”. Provate a far finta che questo disco non sia atto a materializzare i sogni e gli incubi chiusi a doppia mandata nel vostro cervello e vi ritroverete ad ascoltare “soltanto” un blues elettrico monocorde e un po’ stonato, con testi oscillanti tra punte di surrealismo e semplicità sentimentale cara al rock ‘n’ roll anni ’50.
Chiunque si appresti a digerire questo disco deve aver esplorato la musica di “Crazy Clown Time”, questo è un dato di fatto. Sì, perché “The Big Dream” altro non è che la prosecuzione dello stesso discorso artistico. Le chitarre sono sempre più distorte e annegate negli effetti, il lamento di Lynch emerge ovattato e manipolato come agli esordi (qualche fan più attento si ricorderà anche della sua prova vocale in “Ghost of Love”, contenuta nella colonna sonora di “Inland Empire”), i sintetizzatori, forse, più freddi e taglienti che in precedenza. Anche qui, del resto, è presente la collaborazione con una voce femminile cara al panorama indipendente della musica pop. Se in “Crazy Clown Time” era la bravissima Karen O (Yeah Yeah Yeahs) a donare autentica verve ad un singolo cupo ed ossessivo come “Pinky’s Dream”, questa volta il ruolo tocca alla svedese Lykke Li (impegnata a vestire i panni di una “nuova” Julee Cruise). La dolcissima e sognante “I’m Waiting Here”, però, non trova posto nell’album (in cui il monopolio del microfono resta all’autore) e diventa un 45 giri di accompagnamento. Nel caso del CD, un file da scaricare.
Insomma, “niente di nuovo sul fronte occidentale”. Ciò non toglie che la formula già sperimentata sia vincente.
Dean Hurley, ormai collaboratore ufficiale di ogni lavoro sonoro di Lynch (compresa “The Air Is on Fire”, la colonna sonora che accompagnava la sua angosciante e bellissima mostra che fece il giro del mondo nel 2007), confeziona arrangiamenti bizzarri che si adattano come seconda pelle alla vocina stridula del Nostro (quest’ultimo, in “Sun Can’t Be Seen No More”, oserà a tal punto con gli effetti da ridurre il proprio canto ad uno squittio penetrante) e che fanno da contrasto perfetto alle liriche. Liriche che ricalcano perfettamente la tradizione blues: perdita, abbandono, ammirazione, nostalgia e ripetizione; la ripetizione a più riprese di un verso, di una frase. In questo caso, su tappeti elettronici e psichedelici, il quotidiano rasenta l’alienazione (“Went down to the ice cream store/I went down to the ice cream store/When i got home that ice cream was gone”; “One foot had a red sock/The other had blue/It’s tuesday baby/Where are you?”). Ad un ascolto attento, infatti, non emerge nulla di realmente inusuale nei testi e anche l’accostamento più fumoso di immagini risulta estremamente immediato. E’ questa la forza del David Lynch compositore: rendere ossessivo (a tratti quasi fastidioso) un concetto naturalissimo, spontaneo e comune. Complice, in questo intento, la musica. Ogni brano sarebbe, in potenza, una perfetta ballata folk ‘n’ blues, più o meno oscura, pane per i denti di Tom Waits, di Richard Thompson, di Bob Dylan, ma Dean e David decidono di depauperare ogni canzone della melodia. Se c’è, quest’ultima, diventa solo un assaggio fugace, come se fosse capitata per caso tra un accordo in minore e un battito elettronico. Non a caso viene tirato in causa Robert Zimmerman: nell’album c’è spazio anche per una cover di “The Ballad of Hollis Brown” (Lynch afferma di essersi ispirato all’interpretazione di Nina Simone anche se, come avrete intuito, è difficile riconoscerne le peculiarità).
A differenziare “The Big Dream” da “Crazy Clown Time” un maggiore amalgamarsi dei brani tra loro: i sintetizzatori non ricalcano i ritmi disco che hanno reso “Good Day Today” una hit e batterie più rock lasciano il posto ad una scheletrica e gelida forma-canzone (“Last Call”, “We Rolled Together” gli esempi più “freddi” del caso). Per tali motivi questo LP potrebbe scorrere senza colpo ferire, senza lasciare un segno significativo nella mente dell’ascoltatore. Il dubbio che sia proprio questo il movente dietro la costruzione del disco resiste come tarlo insidioso.
Dopotutto una cosa è certa: David Lynch non vuole scalare le classifiche e non vuole vendere più di Bruce Springsteen. Non desidera colmare un vuoto musicale presente nel panorama odierno e di certo non cerca di scimmiottare qualche gruppo che va per la maggiore. Il suo desiderio di suonare, con pochissimi mezzi, è così genuino che non può sfuggire ad un orecchio attento e sensibile. Mentre “Cold Wind Blowin’ “, strizzando pericolosamente l’occhio a “The Nightingale” e a “Falling”, ci trasporta sui monti di Twin Peaks (tanto che ci si aspetta quasi che Julee Cruise faccia capolino, anche solo per un coro) e “Say It” ci guida per gli snodi di Mulholland Drive, non stupiamoci se questo album non tratti temi importanti o non faccia leva su allegorie argute. Lynch sta dipingendo, nient’altro. Come al solito, non ci rivelerà il significato di nulla. Fumerà decine di sigarette, tra una strofa e l’altra, raccontando una storia, distruggendone un’altra, ricamando le trame come se fossero celluloide.
Solo per chi “sa di non sapere.”