SONGS OF A LOST WORLD: MANIFESTO INTROSPETTIVO E ANTICONFORMISTA
Si può dire che “Songs of a Lost World”, il tanto atteso disco dei Cure arrivato dopo 16 anni, sia la massima espressione di Smith e della sua lotta contro l’industria musicale, ai più attenti risaputa da sempre. Lotta che si può espandere anche a livello sociale: in questa insaziabile società dei consumi, abituata a ricevere tutto subito, nessuno sognerebbe di far passare tanto per un disco.
I Cure se lo possono permettere, ma è chiaro che alla base ci sono anche gli ideali di Robert, e che non è lasciato tutto al caso; come non lo è mai per loro, per la tanta Cura e attenzione ai dettagli.
Attraverso quest’analisi, potremo notare quindi che SOALW, è uno schiaffo in faccia – con molta classe – all’incessante catena di montaggio che è la produzione di contenuti culturali da cui siamo sommersi, che vengono sfornati e mandateci in gola così velocemente quasi da farci venire un’indigestione. Così, nel caso dei dischi, dopo i primi ascolti ce ne siamo già dimenticati.
Le irrefrenabili e continue uscite è come se fossero un invito a passare di corsa da una cosa all’altra, oppure è come se rimanessimo indietro, come se ci fossimo persi.
Quasi come se non fossimo a passo con il mondo.
Ma per Smith & co, sicuramente questo non vale. Sarà impossibile dimenticarsi di quest’album, proprio come la maggior parte dei lavori che hanno contraddistinto la loro carriera.
Per il suo spessore e perché, al contrario, questo è un invito ad andarci piano, per gli anni che sono passati sia un po’ in segno di protesta silenziosa, sia perché è un modo per fare le cose come si deve; un invito a fermarci, ad allontanarci dalle vite frenetiche, e assimilare con calma tutto ciò che ci arriva dalle cuffie e che hanno ancora da comunicare.
Sì, perché tutto ciò che è stato raccontato fino ad ora non è mai evidente, ma è nascosto da un grande velo di introspezione, da un viaggio attraverso quelle scomode emozioni umane che ancora oggi non vengono affrontate a dovere. I Cure, però, le hanno sempre trattate in modo eccelso, con delicatezza. Non solo in modo tetro e cupo come ci vogliono far credere da sempre… Semplicemente in modo vero, e con tante altre mille sfumature.
“It’s ok not to be ok”, dichiara in modo fiero questo slogan che vi sarà capitato di leggere. Intanto un’altra cosa che siamo costretti a mandar giù è una positività tossica ed opprimente. Quando, se ci si guarda attorno, è normale che ci venga da vomitare. Ma anche qui, si va controvento: Songs of a Lost World non solo ci fa capire che è normale provare certe emozioni, ma lo fa anche dolcemente.
Ci addentriamo nel mondo interiore di Robert – che puntualmente è anche il nostro – partendo con “Alone”, una delle tracce suonate live in quello che era già il “Lost World Tour 2022” (altra scelta che ha alterato gli animi, ma decisamente altrettanto punk e anticonformista!).
Dopo un’intro non indifferente – ormai loro marchio di fabbrica – che ci trasporta in un’altra dimensione, si comincia:
“This is the end of every song that we sing” “Questa è la fine di ogni canzone che cantiamo” e dopo “Cold and afraid, the ghosts of all that we’ve been / We toast with bitter dregs, to our emptiness” “Freddi e spaventati, i fantasmi di tutto ciò che siamo stati / brindiamo con fecce amare, al nostro vuoto”.
La scelta del plurale è come se fosse la dimostrazione del fatto che, quello di cui narra, è proprio anche il nostro mondo. Non solo un’auto analisi, forse persino una di tipo sociale riguardo la direzione che sta prendendo la nostra umanità, sempre più mirata.
La ripetizione del “where did it go?” sembra alludere a ciò che ormai è andato perso, come una relazione, ma non solo… e ad un bisogno di avere di più.
Come sentiamo nella magica e straziante “And Nothing Is Forever”:
“And I know, I know / My world has grown old / But it really doesn’t matter
If you say we’ll be together / If you promise you’ll be with me in the end”
“E so / che il mio mondo è invecchiato / ma non ha davvero importanza / se dici che saremo insieme / se mi prometti che sarai con me alla fine”.
“A Fragile Thing”, nonostante il suo sound orecchiabile che l’ha resa il secondo singolo dell’album, esplora la sofferenza derivata dalla solitudine, la fragilità e la vulnerabilità dell’amore (“all this time alone has left me hurt and sad and lost” “tutto questo tempo solo mi ha lasciato ferito, triste e perso”). Robert ha infatti dichiarato: “è la canzone d’amore dell’album, ma non nel modo in cui lo è “Lovesong”.
“Warsong” è un potente grido di disperazione, risultato di quel “guardarsi attorno” menzionato prima. È verità nuda e cruda, senza mezzi termini, senza sotterfugi. È uno dei testi che più risaltano in Songs of a Lost World. Una canzone contro la guerra più attuale che mai, poiché riflette i conflitti mondiali e non solo; cosa che intacca sempre di più la nostra salute mentale, specie quella dei più empatici, impedendoci di vedere una via d’uscita. E Smith qui lo illustra benissimo:
“No way out of this / No way for us to find a way to peace […] For we were born to war” “Non c’è via d’uscita / Non c’è modo per noi per trovare la pace […] Perché siamo nati per farci la guerra”.
Con “Drone:Nodrone” si ritorna dal mondo esterno – che così esterno non è – a quello interno. Musicalmente, se all’inizio sembrava esserci un ritorno a Disintegration, qui c’è altro di familiare: dei chiari richiami a Wish, in particolare a From The Edge of The Deep Green Sea. Si tratta però solo di un piacevole ricordo, perché Drone:Nodrone è a sé stante, e ha comunque un sapore tutto nuovo. Il ritmo è leggero, armonioso e piacevole da ascoltare proprio come quello di A Fragile Thing. Dona leggerezza anche il ritornello. Tutto ciò nonostante il testo, trattasi del loro altro marchio di fabbrica: l’essere “Happy Sad”. (“But the answers I have / Are not the answers that you want” “Ma le risposte che ho / non sono le risposte che vuoi tu” “Endless black night lost in looking for more” “Notte nera infinita persa cercando altro”). Non manca una forte carica e una potenza da non sottovalutare, grazie alla chitarra di Reeves che in più occasioni, in questo album, ha avuto modo di sbizzarrirsi.
Siamo arrivati a “I Can Never Say Goodbye”, altro brano già eseguito dal vivo. Anche lui, quanto i primi, non è facile da digerire. Se nell’ultimo avevamo un’atmosfera rilassata, qui si fa più tesa, a partire dai primi secondi. Sì comincia infatti con un effetto che ricorda lo scoppio di un temporale, un po’ come in The Same Deep Water As You, e delle note di piano. Un’ambientazione che è il riflesso di quello che sta accadendo nel famoso mondo interiore del protagonista. E infatti sentiamo: “Thunder rolling in to drown / November moon in cold black rain / As lightning splits the sky apart / I’m whispering his name” “Il tuono arriva fino a soffocare / la luna di novembre sotto una fredda pioggia nera / Come il fulmine squarcia il cielo / Sto sussurrando il suo nome”.
Il nome in questione corrisponde a quello del fratello, poiché il tema principale è la sua perdita.
Il lutto viene descritto così bene al punto da permetterci di ripercorrere un’esperienza della scomparsa di una persona amata; oppure, nel raro caso di non averlo provato sulla propria pelle, riuscire comunque ad immedesimarsi.
Come tante volte nel corso della sua carriera, a partire dal primo singolo “Killing An Arab” ispirato a L’étranger di Albert Camus, anche qui Robert si rifa alla letteratura: il verso “Something wicked this way comes” è un riferimento al romanzo di Ray Bradbury, da cui è nato anche un film horror, “Qualcosa di sinistro sta per accadere” del 1983.
Sulla copertina del romanzo troviamo una giostra, presente anche alle spalle dei Cure durante l’esecuzione live. Ennesima dimostrazione dell’attenzione ai dettagli…
A proposito di giostra, nonostante quest’album sia quasi come andare sulle montagne russe, siamo già arrivati alle due tracce finali: “All I Ever Am” e “Endsong”.
La prima è una di quelle tracce che con il passare degli ascolti si fanno sempre meglio.
Proprio come “And Nothing Is Forever” anche qui riflessioni sul proprio io, sull’amore, sulla caducità del tempo e sull’invecchiamento:
“The way love turned out / Every time was never quite enough” “Il modo in cui andava a finire l’amore / non era mai abbastanza” “I lose all my life like this / reflecting time and memories” “perdo tutta la mia vita così / riflettendo sul tempo e sui ricordi” “My weary dance with age and resignation moves me slow / toward a dark and empty stage” “La mia stanca danza con l’età e la rassegnazione mi muove lentamente / verso un palcoscenico buio e vuoto”.
Concludiamo con “Endsong”, ultima traccia del disco e quinta delle nuove esibite live. Potrebbe essere tra le migliori. Ha un’intro lunga e maestosa, “Out Of This World” (non solo una reference a Bloodflowers, ma anche al gruppo Facebook, casa di tanti curehead). Per questo motivo, il brano ha una durata non indifferente. Dieci minuti e ventitré secondi in cui siamo completamente trasportati fuori dal mondo. Da amante dell’astronomia, la luna continua ad essere uno dei soggetti preferiti di Robert, cosa in cui ci siamo imbattuti più volte nel corso della discografia dei Cure: basti pensare a The Hanging Garden, Three Imaginary Boys, e molte altre…
Qui ci canta così: “And I’m outside in the dark / Staring at the blood red moon”
“E sono fuori al buio / a guardare la luna rosso sangue”.
Sullo sfondo della performance live, stavolta, proprio quella luna rosso sangue.
Direi che quindi “Out Of This World” sia una perfetta descrizione per questo brano. Che siano degli abitanti della Luna?! Di certo non possono essere di questa Terra.
Anche qui il tema dell’invecchiamento, e poi altre due ripetizioni che intensificano il tutto. “It’s all gone” “è tutto andato” e poi, alla fine, “Left alone with nothing at the end of every song… nothing”. “Rimasto da solo senza nulla, alla fine di ogni canzone… nulla”.
Un nulla ripetuto più volte, che rimanda alle sensazioni di vuoto descritte precedentemente.
Una cosa è certa, al termine di quest’album è impossibile sentirsi vuoti. Ti riempie di emozioni, e non solo negative, come decanta tanto lo stereotipo sulla loro musica. Semplicemente emozioni, poi noi scegliamo come classificarle.
Ed è tanto in un panorama musicale, come abbiamo detto inizialmente, che ha piuttosto solo necessità di produrre, e non di comunicare. SOALW ci sazia, ma senza nausearci; è un caldo abbraccio e lo sarà ogni volta, sotto questa “Luna di Novembre”, ma ci accompagnerà anche nel corso degli anni, proprio come Mr. Smith ha voluto che noi accompagnassimo lui.