Voce, chitarra, synth: Giuseppe Lo Bue
Basso: Filippo Scalzo
Voce in “Caron Dimonio” (Traccia 11): Christian Rainer
Artwork (Copertina): G. Lo Bue
Foto (Retro): Marsha Leoci
Registrato, mixato e masterizzato da Gianluca Lo Presti al Lotostudio.
La voce di Christian Rainer è stata registrata da Marco Leoci (Vampire Pop Strategy).
Ebbene sì, è giunta l’ora. A pochi mesi di distanza dall’uscita del primo EP e dopo aver collezionato un numero considerevole di date in tutta Italia, supportando gruppi come Chameleons Vox, KVB e Soviet Soviet, è arrivato finalmente il momento di ascoltare il primo album, la prima importante prova discografica dei Caron Dimonio. Il duo bolognese che ci ha conquistati coniugando atmosfere malinconiche ad una sostenuta carica “electro-punk” richiama all’attenzione con un album curatissimo, coinvolgente ed energico e, no, non è un errore di battitura, si chiama “Gestalt”, come l’EP d’esordio. Una scelta del genere è facilmente assimilabile: la necessità è quella di proseguire sul sentiero già percorso in un anno e mezzo di vita, rifinendo una composizione matura e rodata a sufficienza.
Se i brani già presenti nel primo dischetto sono qui oggetti di un preciso labor limae che li porta a brillare di nuova luce, il punto di forza risultano le composizioni finora inedite. Sembra che la strada tutta italiana spianata da Neon, Diaframma e dai primissimi Litfiba sia stata ribattuta con coraggio e devozione: lo spirito rock si amalgama benissimo alle incursioni di synth e, nonostante l’inevitabile richiamo al passato, si avverte che un vuoto nel panorama musicale della penisola sia appena stato colmato. Nel nostro Paese non mancano ad oggi operazioni di revival dal sapore britannico, ma Giuseppe Lo Bue e Filippo Scalzo decidono di omaggiare quella new-wave nostrana che Berlino e il resto d’Europa sono arrivati ad invidiarci durante la “golden age”. Lo fanno con spirito critico, cercando di non annullare le proprie personalità pur di guadagnare il plauso dei nostalgici. “La cura preferita” è un esempio perfetto di questo intento: forte di un basso danzereccio e di una chitarra leggera che ricorda il primo Adrian Borland, non rinuncia ad un ritornello accattivante e particolarmente riconoscibile. La matrice post-punk non viene mai rincorsa pedissequamente e non c’è spazio per sviolinate alle balere dark, per i Caron Dimonio il calderone da cui attingere deve restare ispirazione nei confronti di un prodotto più personale ed autentico. Del resto sembra che il duo si sia divertito nel colorare di particolari anche le canzoni più austere; “La morte è il mercoledì”, che prosegue nel mescolare ritmiche tribali a un synth gelido e fumoso, diventa irresistibile proprio grazie ai coretti in falsetto che la sostengono! E’ bello poter constatare che esistano ancora gruppi che non abbiano paura di risultare “pop” all’occorrenza, non fuggendo il termine come se riguardasse un emisfero musicale lontanissimo dalla composizione più colta e ricercata. Una scelta tanto immediata, d’altra parte, si scontra con strofe così crude e intense da far risultare l’insieme ancora più inquietante, quasi come se la morte invocata nel testo sia autrice ultima di quel coro tanto intrigante.
Ai cultori più esigenti, in ogni caso, non manca materiale in cui immergersi e riconoscere le sonorità tanto amate: “Novembre qui sulle onde” ci riporta ai Cure più freddi e misurati di “Seventeen Seconds”, lasciandoci testimoni di un clima etereo e impalpabile, scandito solo dal basso e dalla drum machine, in cui le liriche sono il vero enigmatico protagonista. Gemello diretto di questo brano è “Pensavo sarei morto a 18 anni”, una testimonianza dolorosa e graffiante che fa del ritmo il fulcro e della melodia sognante la leva capace di imbrigliare l’attenzione dell’ascoltatore in un tunnel ipnotico di suoni. “Nel tempo fuori tempo” è forse la traccia più elettronica di tutto il disco; robotica, metallica e distorta, contribuisce a dipingere suggestioni industriali come contorno all’invocazione di Lo Bue dal vago sapore pasoliniano (ricordate “Io sono una forza del passato”?). L’energia di brani come “Sul monitor” e “3” viene dunque bilanciata opportunamente senza mai allentare la presa sull’ascoltatore, se non, forse, per un unico episodio, più lento, desolato e rarefatto (“Blu oasi”). Nell’album, come nell’EP, la chiusura spetta a “Caron Dimonio”, riuscita collaborazione con Christian Rainer, autentico alchimista dell’arte a tutto tondo che presta la sua voce calda in favore di un’interpretazione disillusa e consapevole.
La sensazione è che i Caron Dimonio abbiano catalizzato nell’album tutta l’esperienza accumulata sul palco. Aiutati ancora una volta da Gianluca Lo Presti, che li guida ulteriormente alla scoperta del suono più adatto alla loro dimensione, riescono a traghettarci sull’Acheronte del proprio repertorio cullandoci, quando serve, e cavalcando le correnti più impetuose con furia indomita e fiera. Il basso di Filippo Scalzo sembra duellare tutto il tempo con la chitarra, in un “botta e risposta” efficace ed incisivo, che non distoglie mai l’attenzione dal cantato: una vera e propria orazione sottile ed ermetica che l’elettronica misuratissima contribuisce a sottolineare. “Gestalt” è la dimostrazione che gli ascoltatori più scettici aspettavano e in cui gli affezionati speravano. Chi ha ignorato i Caron Dimonio non ha più scuse. “Guai a voi, anime prave!”