Da Petronio Arbitro (I secolo d.C.): peripezie di Encolpio e Ascilto, due giovani parassiti che vivono di espedienti, nella Roma di Nerone. Nella sua struttura di ricognizione onirica di un passato inconoscibile e di rapporto fantastorico sulla Roma imperiale al tramonto, come guardata attraverso l’oblò di un’astronave, non nasconde le sue ambizioni di essere un film sull’oggi. L’itinerario picaresco e becero dei due vitelloni antichi (purtroppo né personaggi veri né simboli) lascia il posto a un’ansia esistenziale e religiosa, all’interrogazione sul significato del nostro passaggio terreno. Su questo versante _ al di là della straordinaria ricchezza figurativa, funerea e notturna dell’insieme _ i momenti più felici sono l’episodio della villa dei suicidi e l’addio alla vita del poeta Eumolpo. La fonte principale di Fellini e del cosceneggiatore Bernardino Zapponi è La vita quodiana a Roma all’apogeo dell’Impero (1939) di Jerôme Carcopino.AUTORE LETTERARIO: Petronio Arbitro
A dispetto del titolo, il film prende spunto da una fabula delle Metamorfosi di Apuleio (la becera mugnaia cristiana) e dal magnifico (gli aggettivi non bastano) libello omonimo (due libri solo, il XV e XVI, ci sono giunti ahimè!) di Petronio; la descrizione di quest’ultimo, fatta da Tacito, lo fa apparire ai nostri moderni occhi come il primo dandy artista della storia.
Il film è stupefacente; come affermò lo stesso Fellini si tratta di pura fantascienza del passato: la Roma ritratta è onirica, gaudente, decadente, artificiosa, letteraria, filmica, surreale, metateatrale nelle maschere-volti dei personaggi (il trucco, le acconciature, gli abiti, le corporeità , gli atteggiamenti, le ambientazioni, i palazzi, gli esterni, i colori Trasfiguranti, ecc.).
Il film è un mirabile omaggio ad un’epoca di pre-picari avventurieri libertini e goderecci, rispecchia l’inizio della decadenza di un grande “sistema” di popoli, culture, abitudini, riti, credenze, codici comportamentali ed arti così vasti da collassare su loro stessi e ingoiare tutto e tutti; la cifra estetica della pellicola è la morte, la fine, la corrutela dei costumi e di ogni possibile commercio umano, il disfacimento della carne in vita goduta e abusata o violentata. E’ un viaggio allucinatorio, dissacrante, un annientamento spettrale e malinconico senza fine (così come il romanzo e la vita dominata dal caos) ed al tempo stesso il racconto di una vitalità efferata e violenta, costellato di immagini al limite del realizzabile (magnifiche le scenografie, i paesaggi marini e quelli urbani) ed addirittura voli pindarici (la scena della pinacoteca ha dell’elegiaco, alludente l’autore greco citato, oppure si pensi alla scena del suicidio di alto valore morale dei coniugi nella villa).
Solo il genio visionario di Fellini poteva rendere tutto questo; qui domina la crapula (il carpe diem catulliano e la fisicità oraziana), i desideri più smodati e irrefrenati di una umanità senza limiti pronta a giustificare col denaro (Trimalcione che paga per farsi acclamare poeta e denigrare Eumolpo), con la cultura o meglio sarebbe dire con la retorica sapiente (si veda la scena del testamento di Eumolpo) qualsiasi atto che soddisfi i propri immediati desideri.
A voler legger più in fondo, forse Fellini ha vomitato tutto il suo mal de vivre (come e più che ne “La dolce vita”) facendo sovraincidere la sua critica alla critica di Petronio. Ancora una volta il maestro romagnolo indaga gli incubi dell’inconscio collettivo della società , ma in questo caso lo fa con una specie di doppio specchio-metafora (passato=presente), in cui il campionario è reso con una lividezza e vivacità grottesca; Trimalcione è il perfetto esempio della stupidità autopoetica, liberto danaroso che tutto compra e vuole, in ultimo anche una fittizia legittimazione culturale (il nome è un gioco di parole dal semitico Melek ossia “tre volte re e Malchione” ovvero cafone) a suo confronto e dinanzi ad una società che idolatra il denaro e il potere a nulla vale la cultura del poeta Eumolpo, lezione che imparerà sulla sua pelle divenendo egli stesso ricco e rancoroso.
E’ questo il quibus di cui discute sommessamente Fellini: una forte e libera vita senza compromessi, ma senza la volgarità della quantità : il come e il cosa fa la differenza, non la quantità ; gli stessi temi prima citati valgono per il sesso, vero trait d’union di tutto questo parossistico film e delle avventure di Encolpio (ripeto non vi è senso nella successione delle vicende, perchà© non vi è senso nella vita), un universo senza moralità eteronoma ma spesso dominato dalle perversioni più atroci e violente. Solo un episodio sembra avere fisicità e sentimento: quello della vedova.
Tirando le somme sembra esserci una presunta moralità dettata dal potere autoritario economico-sociale e di contro una profonda abiezione psicologica e fisica; argomento quanto mai attuale, visto che oggi vi è una pericolosa e ipocrita dissimulazione degli atti (si pensi a chi aborrisce il divorzio e poi divorzia).