L’inverno fu inventato nella seconda metà degli Anni Settanta del secolo scorso. Il freddo poco dopo, poi la precisione, il bavero del cappotto e il rimbombo nelle stanze vuote. Ogni cosa accadde di conseguenza, come un brivido. Prima ti sembrava soltanto provincia, la tua solita vecchia e grigia provincia. Ora le cassette erano apparse e avevano cambiato tutto. I titoli a pennarello nero sui bordi, in fila sulla scrivania: The Cure, Sister Of Mercy, Joy Division, Echo & The Bunnymen, Jesus & Mary Chain, Young Marble Giants, Out Of Cage… Non potevi più stare fermo, e non ti sei più fermato.
Il suono dei Be Forest è un soffio freddo e nitido che arriva da quell’inverno. Non è un ricordo, non è un revival. C’è la stessa scossa buia e abbagliante che agita ancora i feedback delle loro inquiete chitarre, che rimbalza dentro i loro cupi tamburi, che scintilla nei gelidi riverberi di quella voce. Un suono dall’equilibrio perfetto, tra la misura del freddo assoluto e la passione piena delle loro canzoni.
«Due ragazze e un maschietto. Chitarra in eco perenne, voce femminile sussurrata al basso e batterista
verticale. Tutti e tre in piedi. Bellissimi ritagli di luce di fronte alla gente. Presi uno per uno sembrano
piccoli sassi di sentiero e invece sul palco diventano delle rocce levigate dalle onde. Come quelle che trovi
al mare e ti piacciono e vorresti portarle a casa ma non riesci neanche a spostarle, avete presente?»
(Alessandro Baronciani)